“Se questa è l’ultima
Canzone e poi la luna esploderà…”
Secondo questa interpretazione della sua canzone Due Vite, Marco Mengoni racconta un processo di incontro con l’altro da sé. Senza l’altro non esiste la possibilità di sentire il mondo un luogo a cui si appartiene e non è possibile desiderare. Qui sotto una lettura psicoanalitica della canzone.
Tutte le culture hanno storie che riguardano la fine del mondo, miti, racconti, certezze su come andranno le cose quando tutto finirà. La fine del mondo è un sentimento particolare, consiste nel sentire che non finisce solo l’individuo, con la vecchiaia o con un’inaspettata morte. E’ un sentimento in cui l’individuo e la comunità coincidono. La morte individuale e quella del contesto a cui si appartiene si sovrappongono. E per una caratteristica intrinseca della emozioni il sentimento della fine ingloba livelli sempre più alti. Da qui è facile arrivare dal piccolo gruppo al mondo, la luna, l’universo intero. L’antropologo Ernesto De Martino, nel suo libro La fine del mondo – contributo alle apocalissi culturali ci raccontava una precisa caratteristica dei vissuti apocalittici del mondo moderno. A differenza di altre culture di tempo e spazio differenti le apocalissi moderne non hanno un’orizzonte di integrazione possibile, in altre parole non hanno via di uscita, non si integrano nella storia soggettiva delle persone.
“Il momento dell’abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca”. (De Martino 2019, 355, La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali)
Anche se De Martino parlava dentro un’altra epoca, non è difficile sentire attuale la sua tesi. Come psicologi lo riconosciamo nel nostro lavoro, lavorando con le persone che dichiarano il disagio, ma sopratutto facendo attenzione ai nostri vissuti di persone che si ritrovano dentro un mandato sociale che propone di risolvere problemi, curare malattie. Il costo è alto: la metafora della malattia della mente de-soggettivizza la persona, indica che il problema non sta dentro l’esperienza di dolorosa confusione, ma in un disturbo che può essere isolato e poi curato, come un nemico interno da riconoscere e da cui allontanarsi. Qui sembra fondarsi la disintegrazione di parti di sé che l’antropologo indica come dramma non certo solo moderno. Le culture culture del passato trovano dispositivi di reintegrazione passando dentro processi sociali. Ce ne parla sempre lui quando studia l’elaborazione del lutto nelle culture del sud Italia e del mondo greco, o quando studia come la cultura del tarantismo riesce a fare questo lavoro di reintegrazione dell’individuo nel sociale.
La modernità separa il disagio dal disagiato, con un costo alto dicevamo.
Marco Mengoni in questa canzone, scritta insieme a Petrella, fa un altro lavoro di separazione che somiglia più ad un’analisi (dal Greco Analyo, “Scompongo”) che ad una scissione. Ci parla di due vite, le racconta come se parlasse solo di sé, ma la canzone come ogni dispositivo artistico ci permette di mantenere una polisemia dei significati. Marco Mengoni parla del rapporto col sé, del rapporto con l’altro e lo fa contemporaneamente.
Due vite è una scenografia che Mengoni mette su per poter usare il noi e il tu, avviando un discorso che sembra de-avvolgere su una linea qualcosa che è ripiegato su di sé.
“Siamo i soli svegli in tutto l’universo
E non conosco ancora bene il tuo deserto”
Il discorso che si avvia permette di iniziare a fare prime ipotesi su cosa si parla. Questo è vero sempre. Chi scrive una canzone non sa mai cosa sta scrivendo, lo scopre lungo la strada o quando ha finito di scrivere, salvo poi accorgersi che la canzone scritta parla anche di qualcos’altro, di cui non si aveva idea.
Questo processo della scrittura ci permette di pensare a una differenza centrale tra modi di parlare tra le persone. Si può parlare per spiegare qualcosa che già so, devo solo trovare il modo giusto per spiegarmi. Questo modo di parlare configura una asimmetria tra chi sa e chi non sa. Qui dentro è facile vivere la frustrazione del sentire di non riuscire ad essere capiti, di non riuscire a spiegare qualcosa che si vuole dire. Dall’altra parte si può parlare perché parlando dico cose che non mi aspettavo di dire prima, parlo pensando a quello che dico mentre lo dico, e l’altro non è più un ricettore di un messaggio ma qualcuno che contribuisce al mio pensiero che sta nascendo. Qui il pensiero non è più solo mio, ma è qualcosa che emerge da un’incontro ed è qualcosa di diverso da ciò che pensavano in partenza chi si è incontrato. Un proprietà emergente dalle parti ma che è diverso dalla somma delle parti (vedi teoria della complessità).
La canzone di Mengoni sembra parlare di una specifica situazione di incontro, quella che avviene quando due persone vivono un sentimento di solitudine:
Siamo i soli svegli in tutto l’universo
A gridare un po’ di rabbia sopra un tetto
Che nessuno si sente così
Che nessuno li guarda più i film
I fiori nella tua camera
La mia maglia metallica
La distanza dal mondo è raccontata con tante immagini diverse nella canzone, e anche l’incontro con l’altro avviene a patto di mantenere questa distanza dal mondo. La distanza è spaziale “Sopra un tetto”, temporale “I soli svegli” ed emozionale “Nessuno si sente così” e di desiderio “Nessuno li guarda più i film”.
Ma nella canzone c’è continuamente un noi, un me ed un tu che fanno stare ancorati al desiderio di stare dentro un rapporto con l’altro. Dentro un rapporto è possibile come dicevamo capire meglio cosa si prova e cosa si pensa, avviare un discorso che integra le parti di sé, avendo a mente che non è possibile farlo senza l’altro. Lacan diceva: “Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro”, sostenendo che il desiderio non è un fatto individuale. Lo psicoanalista Renzo Carli direbbe che il desiderio ha a che fare col rinunciare all’aspettativa magica di desiderare guardando le stelle, di quando si esprime il desiderio dentro di sé, e che de sidera è un’espressione latina che parla dell’allontanare lo sguardo dalle stelle spostandolo verso una contingenza terrena dentro cui è possibile organizzare il desiderio dentro il rapporto con l’altro. Anche qui l’unica strada è riconoscere l’altro da sé.
Lo vediamo anche dentro la canzone di Marco Mengoni, quando nel ritornello chi canta si assume il rischio di dire qualcosa:
Se questa è l’ultima canzone e poi la luna esploderà
Sarò lì a dirti che sbagli, ti sbagli e lo sai
Qui non arriva la musica
E tu non dormi

Sembra che si parli del rischio che l’altro da sé, la luna, scompaia, e quando accadrà ci sarà la possibilità di dire che non è vero, che non è così. Interessante vedere come la fine di tutte le cose coincida con la fine della possibilità di vivere l’esperienza della relazione col l’altro. De Martino ci ha raccontato come nelle culture da lui studiate l’orizzonte di senso sul mondo, la reintegrazione del sé, avviene dentro il rapporto sociale, solitamente codificato dentro rituali. Pensiamo al lutto, che è possibile elaborare, anche nella nostra cultura solo facendo l’esperienza di non essere soli, di avere qualcuno che vede il nostro dolore e che con un rituale codificato si fa presente dichiarando di vedere quel dolore.
E dove sarai? Dove vai quando la vita poi esagera
Tutte le corse, gli schiaffi, gli sbagli che fai
Quando qualcosa ti agita
Tanto lo so che tu non dormi
Qui Mengoni sembra interrogarsi ancora su questo: che posizione prenderà l’altro da me quando la vita tornerà ad esagerare? Perché se c’è una certezza è che la vita tornerà ad esagerare, e lì non si tratterà di essere guariti, ma se riuscirò a tenere a mente che l’altro esiste ancora, o se sarò tornato a pensare come in principio che “nessuno si sente così”, che il dolore che provo non lo prova nessuno e non può essere capito da nessuno.
Tanto lo so che tu non dormi
Tutta la proposta di questa canzone può vedersi in questo verso in cui Mengoni canta dichiarando di sapere qualcosa sull’altro che magari neanche l’altro sa. Ma è possibile capire qualcosa di qualcuno, senza che la persona abbia capito quel qualcosa? Se i rapporti sono fatti per spiegare quello che già si sa come dicevamo prima, allora di certo no. D’altra parte se nei rapporti io capisco qualcosa in più di me insieme all’altro, allora è possibile che l’altro mi dica qualcosa di me che non so, e che non sapeva neanche lui prima dell’incontro, della condivisione della parola.
In altre parole, Marco Mengoni scrive una canzone che racconta una drammatica esperienza di allontanamento dal mondo e di reintegrazione in questo grazie a qualcuno che non è “me”. In questa interpretazione “Due vite” è un’interessante critica all’individualismo.