Ulisse nel suo viaggio infinito soffre del suo essere lontano da casa, ogni giorno cerca di trovare la rotta per tornare e mettere fine ai suoi tormenti. Ha provato ad evitare la partenza per la guerra di Troia fingendosi pazzo, ma viene scoperto e obbligato a partire.
Il suo viaggio di ritorno a casa dura dieci anni ed è fatto di continui smarrimenti, e perdite. Alla fine tra tutti sarà l’unico abitante di Itaca a ritornare a casa dopo la guerra di Troia.
La canzone di Levante fa riferimento al mito di Ulisse e gli da un senso inedito a partire da ciò che è successo alle nostre vite dopo il diffondersi del Coronavirus. Ogni cosa è ribaltata: non è altrove che ci si perde, ma è la propria casa che, abitata da sirene, diventa un luogo in cui è impossibile orientarsi. Ma come sempre partiamo dal testo.
Ricordi?
Andavamo dentro al vento
Mentre in mano stringevamo sogni
Solo pochi soldi
La canzone inizia e vediamo subito un dialogo. La cantante rivolgendosi ad ad un interlocutore chiede se questo ricorda. Il ricordo definisce un passato rispetto ad un presente.
Le notti a cercare buone stelle
E ritrovarsi in mezzo a strane sorti
Quanto siamo storti?
In quel passato appena riaperto la notte diventa un luogo del mondo in cui è possibile orientarsi grazie a buone stelle. Vediamo subito una differenza con la canzone “Le Sirene” di Capossela che vede la notte come il momento dello smarrimento perché è di notte che le sirene iniziano a cantare e ad ammaliare ingannando.
“Sorti” è una parola densa che viene dal latino “sorte” che a sua volta viene da “sorere” che significa “ciò che è legato insieme”. Cercando di orientarsi nella notte nel mondo al di fuori, levante dice che si ritrovava legata in un rapporto e all’interno di quel rapporto diventava possibile guardarsi e giudicarsi ironicamente “storti”, cioè fuori dalle regole, ma guardando l’etimologia anche “stravolti”, probabilmente da un rapporto inaspettato che, come le stelle, permette di orientarsi e “ritrovarsi”.
Mi porti sulla strada verso il mare?
Se va male resto a piedi con te
“Mal comune”… com’è?
Incroci il mio sguardo allo specchietto
E poi decidi di non fingere che non è facile
Questa domanda sembra rivelare un dubbio implicito in ogni rapporto. “Mi porti sulla strada verso il mare” sembra significare “Mi sopporti sulla strada verso il mare” e qui c’è un modo di vivere il rapporto come nel dubbio di poter essere sopportato dall’altro interrogandosi sul senso dello stare insieme: si soffre di meno se si soffre insieme? E se si diventa la fonte delle reciproche sofferenze? Ancora non è chiaro, è da capire.
Ma quando si è orientati verso il mondo queste domande sembrano perdere di senso, gli sguardi si incrociano solo per errore perché il mondo fuori è più interessante e il senso dello stare insieme diventa proprio la condivisione di un interesse verso il fuori più che un rivolgersi negli occhi l’uno dell’altro perdendo di vista quello che sta intorno.
Amore non è tempo di castelli
Stendi i desideri accanto agli ombrelloni chiusi
Sgonfia i tuoi braccioli
Amore dici “sento le sirene”
ma non c’è traccia di mare intorno a noi
Se vuoi facciamo un bagno nella pioggia.
Il ritornello entra all’improvviso, proprio mentre la strofa stava ricostruendo il ricordo della vita all’aperto al di fuori della casa, e appare violento: “Non è tempo di castelli” sembra un riportare al presente un pensiero che prova a dare un senso al presente attraverso il ricordo del passato, il pensiero su quello che esisteva prima della reclusione.
Se proviamo a sottrarre al discorso le parole dense possiamo vedere alcune prospettive che il testo racchiude. Prendiamo queste: castelli, ombrelloni, desideri, chiusi, braccioli, sirene, mare, bagno, pioggia. Queste parole ci possono far pensare a diverse cose. Alla vita al mare d’estate, con i castelli di sabbia, gli ombrelloni, i braccioli, le sirene, il bagno che sembra un mare da bambini fatto di sirene e di braccioli necessari a restare a galla, sempre sotto lo sguardo vigile di un’altra persona. Dall’altra parte è facile pensare al mare come un luogo diverso da quello da cui parla la cantante: “Non c’è traccia di mare” ci fa cambiare prospettiva e le sirene diventano quelle che dalla reclusione si sentivano passare fuori casa, spesso l’unica traccia dell’esterno. Una traccia mortifera proprio come le sirene di Ulisse, stavolta incontrate non a causa di un viaggio nello spazio del mondo, ma a causa di un viaggio nel tempo della quarantena nella forte riduzione di spazio.
Distanti, quanti metri servono a renderci tristi?
Ma noi siamo amanti… sai ancora abbracciarmi?
Ci pensi alla lista delle cose da rifare quando andremo avanti?
Quando andremo avanti…
Il discorso allora si rivolge allo spazio e la distanza fisica diventa una questione da esplorare rispetto a quello che abbiamo vissuto nel lockdown. La distanza forzata (ma anche la vicinanza) diventa un problema, o meglio qualcosa che ha a che fare con la tristezza, sempre se i metri servono a misurare lo spazio all’interno di un rapporto e non a immaginare di misurare il percorso che si fa “quando andremo avanti”.
Levante ci racconta quello che vive, il punto è sempre quello: come amante sente il rischio di rivolgersi all’interno e passare il tempo a misurare le infinite distanze e caratteristiche del suo rapporto su due dimensioni, ma solo se si dimentica di un mondo fuori verso il quale è possibile rivolgersi, verso una terza dimensione. Il rischio è guardare dentro o solo al proprio fianco invece che sentire l’esistenza di un avanti e un dietro.
Diventa necessario riprendersi lo spazio nelle sue tre dimensioni e Levante lo fa nella canzone attraverso la quarta dimensione del tempo, inserendo il passato (“Ricordi…”) e il futuro (“…quando andremo avanti”) nel racconto di quello che vive, storicizzando un presente che rischia di appiattirsi su sé stesso. E’ chiaro qui come lo spazio e il tempo sono dimensioni che si sovrappongono perché più che descrivere la realtà del mondo, sono categorie che permettono di trasformare le emozioni indicibili in discorsi comunicabili.
Mi porti sulla strada verso il mare?
Se va male resto a casa con te
E non è facile
E allora la cosa da fare è riprogettare, ripensarsi in funzione di un tempo passato-presente-futuro. Progettare sembra qualcosa di estremamente fragile e ritorna l’ipotesi che soffrire insieme possa significare sia soffrire di meno che essere esposti ad un rischio infinito.
Amore dici “sento le sirene”
ma non è più come pensi…
Sono Ulisse all’albero maestro,
Neanche oggi esco.
Ho pensato molto a cosa significa essere Ulisse all’albero maestro in un periodo che tutti abbiamo condiviso e che sembra essere appena passato, un periodo che spero che non ritorni più.
Ulisse sceglie di ascoltare il canto delle Sirene, non sottrarsi all’interesse per l’ignoto, anche se questo ignoto può essere infinitamente pericoloso. Essere Ulisse all’albero maestro nella canzone di Levante sembra significare il voler sentire quello che succede fuori quando si è costretti a stare dentro, sembra definire l’impossibilità di escludere l’esterno, il voler mantenere il contatto con il mondo quando il rischio più grande non viene dal di fuori la casa, ma da dentro. Ci sono molte sirene, quelle che vengono da fuori, ma le più pericolose sono quelle che cantano da dentro. Il rischio è quello di ascoltare solo quelle interiori facilitati da un lockdown che ci fa allucinare un’apparente assenza del fuori. Levante fa parlare le sirene di dentro con quelle di fuori, le mette in contatto storicizzando il dolore e dichiarando il suo interesse per il fuori, come Ulisse all’albero maestro senza cera nelle orecchie, sottolineando il fatto che non esiste un ignoto interiore scisso da quello che c’è intorno.
In altre parole “Sirene” di Levante permette di sentire che i nostri mondi interni esistono solo a partire dal mondo esterno che condividiamo, e togliere gli occhi dal fuori significa aprirsi la possibilità di perdersi nell’infinito privo di senso.