Sono lontani i tempi in cui Laura Bordini presidente della camera dei deputati invitava ad usare il femminile per riferirsi ai ruoli professionali ricoperti da donne. La sua battaglia andava avanti sul piano della lingua, che spesso sembra una formalità inutile.
Eppure grandi studiosi del passato hanno più volte indicato una forte connessione tra pensiero e linguaggio, tra le parole e la grammatica che usa un popolo e i suoi pensieri collettivi, la sua cultura.
La grammatica va rispettata?
La lingua è un organismo vivo, pulsante, che si trasforma insieme ai cambiamenti culturali e non è mai rigida e immutabile.
La grammatica, colpa del fatto che abbiamo tutti dovuto studiarla con molte noie, erroneamente viene vista come un insieme di regole precostituite alle quali bisogna adattarsi per poter parlare correttamente.
In verità la grammatica nasce in seguito all’osservazione della lingua parlata, e si definisce come un accordo convenzionale a posteriori tra le persone che parlano.
La lingua si trasforma e con essa si trasformano le regole che la definiscono, che seguono e assecondano i cambiamenti in atto.
Il linguaggio ha quindi uno stretto rapporto con la cultura di riferimento, e analizzandolo ci rendiamo conto che ad esempio in italiano si sono definite alcune parole che in altre lingue non esistono, e viceversa.
Le parole diverse
Ci sono parole straniere che non hanno una traduzione precisa in italiano. Ho parlato in questo articolo della Kaukokaipuu, la nostalgia di un posto in cui non siamo mai stati, ma di esempi del genere ce ne sono a centinaia.
Il popolo Yupik ad esempio ha circa 99 parole per dire “ghiaccio”, perchè il ghiaccio nella loro vita è ovunque ed è necessario chiamarlo in tanti modi. C’è il ghiaccio solido e sicuro, quello che sta per rompersi (Nuyileq) e così via.
I Tedeschi usano la parola Herbstmelancholie per descrivere la nostalgia dell’autunno. Nella loro cultura probabilmente c’è stato bisogno di nominare e normalizzare la malinconia legata alla stagione che precede il grande freddo. Anche se in Italia gli inverni possono essere duri e imprevedibili, il sole non si fa mai desiderare, e così riusciamo a prevenire naturalmente malinconie collettive importanti.
I coreani usano la parola “Han” per descrivere una certa emozione composta da accettazione della sofferenza e speranza che le cose cambino nel futuro, in un futuro migliore atteso con grande intensità. L’autrice Park Kyung-ni sottolinea che questa emozione molto sentita dal popolo coreano nasce per motivi storici, dato che il paese per lungo tempo è stato una colonia sottomessa.
C’è poi la parola Awumbuk della tribù baining della Nuova Guinea. Questa parola indica quel senso di pesantezza che prova chi rimane quando una persona cara si allontana con una partenza. Secondo loro chi parte si sente più leggero, e questo avviene perché si lascia dietro una coltre di pesantezza che il popolo dei baining riesce a contrastare con un rituale: vengono messe agli angoli della casa delle ciotole piene d’acqua che in tre giorni assorbono ciò che ha lasciato nell’aria chi è partito a cuor leggero.
Una parola del genere definisce cosa significa la partenza di una persona cara per questa tribù della nuova guinea: qualcosa che fa soffrire, ma che può essere affrontato in poco tempo.
Ogni cultura quindi sceglie le sue parole, parole che in qualche modo le servono per poter pensare e condividere il mondo socialmente.
Non sono solo le parole a descrivere bene i connotati di una cultura, ma anche la grammatica. Le strutture e le sfumature grammaticali cambiano a seconda della lingua ed esse stesse definiscono e influenzano radicalmente il pensiero.
Certe lingue hanno bisogno ad esempio di avere oltre al genere femminile e maschile, il genere neutro.
L’ipotesi Sapir-Whorf
Una teoria molto famosa sul linguaggio è quella formulata dai due studiosi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf secondo i quali il linguaggio determina il modo in cui pensiamo il mondo, il modo in cui lo categorizziamo e percepiamo.
I due autori sostengono che utilizzare le parole e la grammatica di una lingua significa percepire il mondo attraverso il punto di vista di quella cultura specifica, il suo bagaglio di pensieri e prospettive.
Un esempio pratico di questa teoria lo osserviamo, seppur in modo fantascientifico, nel film Arrival.
La protagonista del film apprende il linguaggio degli alieni, la cui struttura è totalmente diversa dalle lingue della terra, perché è circolare e non lineare. La lingua aliena non ha un inizio e una fine, una sequenza temporale, ma funziona a prescindere dal tempo.
Imparando la lingua aliena, l’eroina riesce a percepire il mondo superando la dimensione del tempo e così farà (?)… quello che deve fare (non dico di più così lo spoiler rimane a metà!).
Perché ministra, sindaca e avvocata?
Oggi sappiamo con certezza che la lingua descrive e influenza le categorie che usiamo per guardare e vivere la realtà.
Insistere, come faceva la Boldrini, nel proporre una sfumatura linguistica che prevedesse un maggiore utilizzo del genere femminile, alla luce delle teorie linguistiche e psicologiche, significa insistere in un tentativo di cambiamento culturale.
E forse questo cambiamento culturale è più che utile oggi, se pensiamo che, come dicono numerose ricerche sul gender pay gap, a parità di condizioni contestuali le donne per uno stesso lavoro guadagnano meno di un uomo, e le differenze in termini di diritti sono ancora molto grandi.
Per approfondire:
- https://it.wikipedia.org/wiki/Ipotesi_di_Sapir-Whorf
- https://www.corriere.it/buone-notizie/18_gennaio_25/part-time-involontario-disuguaglianze-lavoro-donne-pagate-meno-uomini-4acca2ec-01e1-11e8-9ff2-341a2fe0297c.shtml
- https://it.wikipedia.org/wiki/Arrival_(film)
- http://www.treccani.it/enciclopedia/grammatica/
Morgan Colaianni
Psicologia Clinica. Orientamento Creativo.
Vero!
"Mi piace"Piace a 1 persona